lunedì 10 febbraio 2014

A proposito di chi?

Dave Van Ronk non avrebbe apprezzato l’idea che l’ultimo film dei fratelli Coen propone della sua figura. L’autore di “Last Call” era un uomo consapevole della condizione umana ed era un essere con una intensa propensione alla libertà. Non era il poveraccio dipinto dai Coen. Aveva scelto di fare il musicista e aveva saputo adattarsi alla realtà, mostrando così di essere anche molto intelligente. Certo, non possedeva la creatività e nemmeno la scaltrezza opportunistica di un tipo come Bob Dylan, ma non intendeva neanche lasciarsi sfruttare dall’industria musicale. Dave Van Ronk aveva saputo ritagliarsi uno spazio, stabile e comunque rilevante, in un mondo in transizione. Era un uomo adulto, con una visione esistenziale definita. I suoi valori non erano assimilabili a quelli degli adolescenti. Furono proprio i bisogni psicologici di questi ultimi a determinare il successo commerciale di un certo tipo di musicisti. Van Ronk faceva ancora parte di quel mondo per il quale essere giovani era soltanto un periodo della vita e una condizione anagrafica, non certo uno status sociale. In buona sostanza, la categoria dei cosiddetti “giovani” non esisteva nel mondo psicologico e culturale di Dave Van Ronk.
Il desiderio di fare e ascoltare musica nasce in esseri umani che vivono nel mondo, nella vita vera di tutti i giorni: e come tale dovrebbe essere affrontato e regolato. I fratelli Coen, in linea peraltro con i paradigmi culturali usuali e dominanti, non si sono minimamente preoccupati di inserire la figura di Van Ronk nel contesto specifico della New York degli anni Cinquanta e Sessanta, un luogo e un’epoca di importanza cruciale nello sviluppo della musica contemporanea. “A proposito di Davis” è perciò solo un presuntuoso e insignificante esercizio di stile, che fornisce una interpretazione arbitraria e assolutamente scorretta della vita e dell’opera di un musicista che ha comunque avuto un ruolo di rilievo nella transizione dalla musica tradizionale (folk, country, blues e jazz) a quella giovanile (rock e underground).

lunedì 10 marzo 2008

La nascita dei "giovani"

Nel mondo occidentale, il problema della tossicomania è stato posto con sempre maggior rilievo nel secolo scorso, a partire dai primi anni Cinquanta. Prima d’allora, il fatto che esistesse comunque già da decenni un enorme numero di tossicodipendenti non aveva ancora destato grande impressione nell’opinione pubblica. Questo perché l’uso di droghe era in massima parte circoscritto a gruppi sociali discriminati e oppressi da sempre: i neri d’America, in primo luogo; e poi quelle frange della comunità d’origine europea più emarginate socialmente. In ogni caso, comunque, il problema della tossicomania non investiva il proletariato né, tanto meno, la piccola e media borghesia.
E’ noto peraltro che molti comportamenti socialmente “diversi” sono riscontrabili storicamente innanzitutto agli estremi della gerarchia economica della società: le classi più abbienti e il sottoproletariato. Comportamenti “diversi” in molti ambiti: qui basterà citare i modi sessuali e quelli attinenti all’uso di droghe.
Per quanto concerne la tossicomania, essa è un problema anzitutto economico e di classe. I tossicomani che possono agevolmente disporre di danaro non hanno bisogno di rubare o prostituirsi per comprare la droga. Essi possono anche essere sufficientemente sicuri che le droghe acquistate non siano di qualità scadente. I tossicomani poveri, privi di mezzi, non hanno scelta: devono continuamente varcare i limiti della legge per procurarsi l’eroina; possono con facilità essere costretti ad acquistare dosi di pessima qualità e altamente nocive; essi, di fatto, non sono in grado di sottrarsi ad un sistema di sfruttamento multiplo articolato in modo complesso.
Alla fine della seconda guerra mondiale, le tossicomanie cominciano una lenta e inesorabile espansione anche nelle altre classi sociali. Per quali motivi?
Mario Maffi, in “La Cultura Underground”, edito da “Laterza”, sostiene che il "generation gap" parte "dagli anni bui dell’immediato dopoguerra", prosegue "attraverso la ripresa degli anni Cinquanta e via via verso gli anni Sessanta". E’ in questo periodo che “il mondo dei minorenni prende lentamente volto, si sceglie nuovi idoli, un costume di vita, un modo di vestire, amare, ballare, fare all’amore, pensare, sempre più lontani da quelli della generazione precedente e soprattutto dei genitori… Un processo graduale, aspro, caratterizzato a volte da posizioni di aperto conflitto, spesso drammatico proprio per la condizione in cui i giovani venivano a trovarsi alla fine della guerra, estraniati, privi di quei simboli e valori che erano stati svuotati e infranti dalla guerra, con la sensazione di vivere in bilico sul baratro del conflitto atomico, facili prede del clima di violenza e disperazione proprio del dopoguerra. Fu questo vivere violentemente e aspramente, questo non poter comprendere appieno la propria vita e la realtà esterna a caratterizzare il nuovo ‘gruppo culturale’, la ‘sottocultura giovanile’, La realtà sociale e legami soprattutto emotivi accomunavano larghi strati di giovani alla ricerca di un’identità”.
Quegli anni vedono nascere dunque una nuova figura sociale: il “giovane”. Una figura che ben presto si struttura in gruppo sociale. E qui ha origine un ulteriore fenomeno assolutamente nuovo: un gruppo sociale che si sviluppa in una dimensione storica, culturale, psicologica, nella quale non trova spazio alcun criterio di produttività.
Il fatto che negli ultimi cinquant’anni si sia tanto parlato di giovani e cultura giovanile può indurre la convinzione che queste figure sociali e queste categorie siano sempre esistite. I giovani in quanto tali e la loro cultura sono un prodotto e una conseguenza della seconda guerra mondiale. Prima esistevano i ragazzi, gli adolescenti, che poi sarebbero diventati adulti, esattamente come era avvenuto per le generazioni precedenti. Questi ragazzi non avevano atteggiamenti, e tanto meno consumi, che potessero distinguerli come figure sociali autonome. Non avevano, di fatto, un modo di vestire, di parlare, di comportarsi che potessero essere definiti in qualche maniera come loro esclusivo e peculiare appannaggio.
Per quanto concerne i consumi, c’è da dire anzitutto che nessuna industria avrebbe mai prodotto alcunché per una categoria i cui componenti non avevano danaro. I ragazzi consumavano in genere immagini e prodotti che erano in comune con gli adulti: i giornali sportivi, ad esempio. E anche i fumetti, che magari potrebbero essere definiti come consumo giovanile, si rifacevano in gran parte a immagini adulte: da Nembo Kid (oggi più noto come Superman) a Mandrake, a Gordon Flash, all’Uomo Mascherato. Lo stesso Topolino, al di là dell’apparente astrattezza, era evidentemente un modello adulto.
La musica poi non faceva assolutamente parte dei già esigui consumi giovanili. Il jazz, in quegli anni, non veniva certamente concepito come musica dei giovani. I divi della canzone, come Nilla Pizzi, Achille Togliani, Claudio Villa, Luciano Tajoli, erano chiaramente componenti del mondo degli adulti.
Con la fine della seconda guerra mondiale comincia dunque a vedere la luce questa nuova creatura sociale: il giovane. E uno dei suoi consumi per eccellenza diviene fin da subito la musica.

lunedì 3 marzo 2008

Musica e tossicomania

Il fenomeno dell’espressione musicale, in particolar modo negli ultimi cento anni, è stato uno specchio perfetto di tutto quanto è accaduto nella società nel suo complesso; spesso anche una prefigurazione.
Molti studiosi d’arte e di sociologia sono concordi nell’affermare che il più inquietante e affascinante fenomeno creativo del Novecento sia stata la Great Black Music: la musica dei neri d’America.
Se si eccettua la musica cosiddetta “accademica”, che peraltro non è nata né ha raggiunto la massima espressività nel secolo appena trascorso, tutta la musica che noi ascoltiamo oggi, dal rock and roll al motivetto pubblicitario, trae origine dagli stilemi propri della musica afroamericana.
E’ indubbio che i contenuti artistici ed espressivi del blues e del jazz sono una cosa e quelli del rock o delle canzoncine pubblicitarie ben altri. Ma è vero, come afferma Alessandro Carrera in “Musica e pubblico giovanile”, edito da “Feltrinelli”, che
“ogni contenuto può essere assunto e trasmesso, a patto che si sottoponga a un’opportuna traduzione formale. Il capitale lascia libertà ai contenuti quando le forme gli rimangono sottomesse. Ciò che interessa non è il contenuto esistenziale del messaggio, che a suo modo può anche essere ‘sovversivo’, ma il fatto della forma nel quale il messaggio è inserito”.
Questo concetto merita particolare attenzione perché risulta di grande utilità per comprendere in quale modo la “forma” della tossicomania ha permesso la neutralizzazione di fenomeni di forte dirompenza artistica, culturale, sociale.
Un’adeguata ricerca musicale evidenzia un numero davvero impressionante di grandi musicisti tossicomani: da Lester Young a Billie Holiday, a Charlie Parker, per continuare con Bud Powell, Fats Navarro, Bill Evans, Miles Davis, John Coltrane, Chet Baker, Gerry Mulligan, Art Pepper, Stan Getz e tantissimi altri. Anche tra le “rockstars” la quantità di tossicomani è certamente rimarchevole.
E allora: quali segni, quali prefigurazioni di quanto accadeva o stava per accadere nella società nel suo complesso si potevano, si possono leggere negli avvenimenti del mondo musicale? Qual è il nesso fra musica e tossicomania?
Il cammino di una società e l’evoluzione della sua musica hanno una relazione precisa. Cercare perciò una risposta alle domande precedenti può allora facilitare la comprensione di un fenomeno tanto tragico quanto complesso come la tossicomania.
La pubblicistica in materia di tossicomanie è stata prevalentemente tesa ad affrontare il problema in maniera monocorde: si è fatta troppo spesso una separazione netta fra i diversi aspetti storici, politici, sociologici, culturali e psichiatrici del fenomeno. Un adeguato metodo di indagine dovrebbe invece fondarsi su criteri che consentano di scoprire le precise connessioni esistenti fra il tipo di sviluppo economico e sociale, le scelte politiche, gli atteggiamenti culturali che sono venuti a mano a mano conformandosi nella nostra società.
E’ opportuno riflettere sul fatto che un tossicomane non è tale solo in quanto la sua storia psichica, sociale e politica ne hanno fatto un “designato”; ma anche e soprattutto perché le sue risposte alle richieste, alle sollecitazioni ambientali e sociali è costantemente duplice: nei contenuti è di ribellione, di affermazione, di proposizione, in una parola attiva; nella sua forma è invece consona, perfettamente rispondente alle aspettative del sistema sociale.
Il tossicomane, in sostanza, è essenzialmente proteso verso una risoluzione psicologica di un bisogno sociale di “non conformismo”. A questo proposito, Leroi Jones, nel suo “Popolo del Blues”, edito da “Einaudi”, sostiene: “I drogati, specialmente quelli dediti all’eroina, si isolano e costituiscono un gruppo chiuso. Sono, a parte gli omosessuali, il gruppo più capace di assicurarsi una difesa contro la società… L’umana condizione viene esaltata a un livello assolutamente superiore, e molti dediti all’eroina sono convinti che senza di essa non si possa ‘capire’ sul serio, essere ‘hip’, iniziati, insomma. Cambiano completamente i criteri di valore e nessuno può più andare a dire al drogato che l’impiego o il successo hanno qualche importanza. L’uomo di maggior successo, per i tossicomani, è colui che sa facilmente procurarsi la droga. Per queste ragioni, gran parte del linguaggio ‘hip’ deriva direttamente dal gergo dei drogati, così come da quello dei musicisti. Il linguaggio ‘segreto’ dei TOSSICOMANI E’ parte essenziale di un culto essenziale di ridefinizione in termini riservati agli iniziati. Il proposito E’ di isolare ancora più definitivamente un culto di protezione e ribellione”. (Le parole in maiuscolo sono mie).
Così i tossicomani, in mancanza di un’effettiva risoluzione ideologica ed economica della loro fondamentale condizione di emarginati, tentano un sovvertimento della propria immagine sociale: il che avviene mediante una serie di comportamenti in apparenza folli (per il tipo di condotta esistenziale), misteriosi, anticonformisti. Ma tale atteggiamento formale agisce però come trappola in quanto consente la possibilità del recupero e della neutralizzazione delle spinte al cambiamento da parte dell’ideologia dominante.
E’ possibile evidenziare una quasi perfetta congruenza dei bisogni psicologici e dei valori esistenziali simbolici dei musicisti in generale (anche non dediti a droghe) con quelli dei tossicomani in senso complessivo. E’ necessario però anzitutto mettere in rilievo le profonde differenze, di contenuto e formali, esistenti tra le due più note forme d’espressione musicale del Novecento: la musica nata dai neri americani e quella derivata dalla cultura cosiddetta “underground”.

venerdì 29 febbraio 2008

Il problema della consapevolezza

Ho letto un post consigliato da Luca De Biase (debiase), scritto da Toshan Ivo Quartiroli e comparso su innernet. Si intitola “Consapevolezza politica”. E’ uno scritto interessante. Mostra come tematiche rilevanti vengano ancora affrontate con un linguaggio stereotipato, anche da uomini che si occupano di scienze. Quartiroli usa una gran quantità di immagini metaforiche con un linguaggio enfatico, troppo connotato in senso moralistico, e alla fine poco credibile. L’approfondimento di temi concernenti la vita della società richiede di evitare moralismi ed esortazioni. Sarebbe opportuno usare un linguaggio rigoroso. E’ preferibile una maggiore sobrietà, che non significa indifferenza alle problematiche etiche, ma ricerca di un’analisi dei fatti non inficiata da anticipazioni di giudizio.
Il problema della “consapevolezza”. Il teorema di Godel smantella ogni teoria della prevedibilità. La sua dimostrazione si fonda sulla peculiarità dei numeri primi: l’impossibilità di prevedere la loro successione. Quando si moltiplicano i numeri naturali positivi per ognuno degli altri non si ottiene una sequenza che colmi tutti i numeri. Prima o poi compare un numero che risulta essere il primo della sua serie, e non è possibile prevedere quando ciò si verificherà: se fosse prevedibile significherebbe che quel numero non è il primo della sua serie ma l’ennesimo di un’altra serie. Se ne deduce quindi che se si aggrega un enunciato vero ad ogni numero primo esisterà inevitabilmente un enunciato vero che non è desumibile da tutti gli enunciati veri già conosciuti. La formulazione di un sistema assiomatico universale è perciò impossibile.
Cosa sarebbe dunque questa “consapevolezza” di cui si è sempre parlato così tanto? Parrebbe un sistema compiuto di conoscenza, giudicato possibile, anzi inevitabile, perfino da Einstein, secondo il quale “Dio non gioca a dadi”. Ma poiché pare indiscutibile l’impossibilità di proporre un sistema universale prevedibile e finito, se ne ricava che la “consapevolezza” in quanto tale dovrebbe nascere prima dell’analisi e della conseguente valutazione di qualsiasi evento. Questo è quello che accade infatti in qualunque religione o in ogni sistema fondato su dogmi e credenze aprioristiche. E’ accettabile? Secondo quali criteri? E per quale motivo un dogma dovrebbe essere più o meno vero di un qualsiasi altro, considerata l’ovvia indimostrabilità degli stessi dogmi?
Il bisogno di rassicurazione pare nato insieme con l’uomo. Ne è sempre conseguita una prevalenza di suggestioni più che la ricerca e la diffusione di informazioni e conoscenze ben comprensibili ed esposizioni metodologiche adeguatamente chiare. Qualsiasi credenza si fonda sull’idea che da qualche parte provenga un’indicazione diversa e di qualità molto migliore di tutto il resto: un’ispirazione elevata per coltivare valori spirituali. D’altro canto, dotare di spiegazioni più o meno nobili le motivazioni vere è un meccanismo noto fin dai tempi di Esopo. Come è evidente che stare dalla parte degli angeli è molto più rassicurante che far parte delle scimmie. La frase di Disraeli in polemica con Darwin è paradigmatica in questo senso: “La domanda è la seguente: l’uomo è una scimmia o un angelo? Mio Dio, io sto dalla parte degli angeli”. Più chiaro di così…
Il problema è dunque l’illusione che il conflitto tra fede e scienza, religione e laicismo, spiritualismo e materialismo sia questione falsa o di poca importanza. La contrapposizione è invece seria e profonda e non sembra facilmente risolvibile.

giovedì 3 gennaio 2008

Blog

Il dibattito sui blog è sempre più serrato. Taluni affermano che l’inondazione di parole che ci sommerge alla fine annegherà la comunicazione, perché la capacità di ascolto diminuirà sempre più, fino ad azzerarsi; che la fonte di ogni sapere è verticale, gerarchica, mentre l’assenza di distinzione qualitativa tipica dei blog è orizzontale, confusionaria e dunque astratta e ideologica; che i messaggi dei blog sono in definitiva senza contenuto e che rappresentano unicamente la necessità, spesso solo vanitosa, di mettersi in comunicazione ad ogni costo, anche senza avere veramente qualcosa da dire; oppure che i blog sono pretesti per altri obiettivi non dichiarati, ma sottesi, come nel caso di Grillo. Tutto questo comporterà il deprezzamento e la banalizzazione dei messaggi, e la rinascita delle ideologie.
E' indubbio che l’universo dei blog contenga anche molto ciarpame, così come ospita inevitabilmente matti più o meno furiosi o disonesti di ogni genere. Ma attribuire tali evenienze all’esistenza dei blog equivale a definire la telefonia soltanto pericolosa perché ci sono individui che se ne servono per molestare o minacciare gli altri. La nascita dei blog ha migliorato grandemente la comunicazione e il sistema d’informazione. Attraverso essi vengono messe in circolazione notizie e possibilità di apprendimento in precedenza impossibili da ottenere. I blog d’informazione segnalano, per esempio, un articolo del New York Times anche a chi non sa che esiste quel giornale. Così come il fatto stesso che la maggior parte dei blog siano tematici annulla i pericoli dell’appiattimento astratto e ideologico dei messaggi, perché comporta il confronto e l’approfondimento dei temi. Cosa questa impossibile nel sistema informativo tradizionale (giornali, televisioni) perché la loro è una comunicazione senza risposta, con un solo senso di direzione. Con tutti i guasti e i pericoli che ciò comporta veramente.
Il punto nodale della questione è che tutti noi, indistintamente e di qualunque età, proveniamo dal mondo che è si è formato durante e dopo la seconda guerra mondiale: l’epoca che ha visto nascere la cultura “underground”, un tempo con problematiche, aspettative, contraddizioni, utopie completamente nuove rispetto al passato. Abbiamo sperimentato fino al midollo la via dell’eccesso, la strada che secondo William Blake conduce al Palazzo della Saggezza.
Noi la conosciamo fin troppo bene, quella via. Siamo stati eccessivi in ogni cosa: nell’odio come nell’amore, nell’entusiasmo come nell’avvilimento, nell’utopia romantica come nel cinismo, nella banalizzazione come nella drammatizzazione. Fra noi ci sono stati quelli che, in nome dell’Utopia, hanno contrattato bene il loro ruolo di vessilliferi. Oggi li vediamo sui banchi della Camera e del Senato, oppure ai tavoli dei consigli di amministrazione. Sono quelli che sapevano che alla fine si sarebbe tornati a casa. Si sono “sistemati”. Buon per loro. D’altronde, in ogni epoca, in ogni ambito, ci sono coloro che si affannano a cercare cose nuove e ci sono quelli che si preoccupano principalmente di vendere ciò che già esiste.
La via dell’eccesso. Ebbene, essa ci ha mostrato a carissimo prezzo tutto quello che non era possibile; talvolta con la conseguenza di sortire la rassegnazione, l’annichilimento, o anche l’aridità più completa. Ma, forse senza che ce ne accorgessimo, ci ha indicato, insieme con i nostri limiti, anche tutti i livelli, tutte le possibilità che realmente esistono per fare le cose.
Il nostro errore più madornale è stato, e rimane tuttora, quello di aver confuso l’individualità con l’individualismo, nel senso che molto spesso abbiano cercato di cambiare “soltanto” il mondo; che la nostra ricerca d’identità è passata attraverso “parole d’ordine” che presupponevano una visione della comunità, del collettivo, del complesso ambientale, sociale e politico troppo lontana e dissociata da noi stessi. Noi volevano cambiare tutto. “Tutto” è sinonimo di “niente”.
E’ vero, ci sono mancati i punti di riferimento, gli unici forse che avrebbero potuto aiutarci, abituarci a distinguere, a differenziare. Proveniamo storicamente da culture imperniate sui “massimi sistemi”. E noi giù, a capofitto, a “filosofare”, a disquisire, ad agitarci sempre più nei massimalismi assoluti. Giorno dopo giorno, la realtà è diventata un porto sempre più lontano. E più la nostra danza nell’infinito assoluto diventava frenetica, tanto più scoprivamo la nostra sterilità, la nostra impotenza a comprendere non solo quel che è altro da noi, ma perfino a capire noi stessi.
Se tutta la storia di commedie e molto spesso anche di tragedie di cui siamo stati al contempo spettatori e protagonisti ha un senso, è questo: noi siamo stati e siamo dilettanti dell’esistenza perché le nostre azioni, le nostre azioni si sono fondate su una presunta globalità, ma in realtà sono sempre state parcellari. Mentre è necessario imparare a distinguere, ma senza separare; a inquadrare le cose e i fenomeni nei loro contesti; a verificarli, a valutarli complessivamente.
Nessun artista, nessun poeta, nessun filosofo, nessuno scienziato è o produce separatamente dalla sua vita vera di tutti i giorni. Una vita che è un cerchio aperto. Il passato, è notorio, non si può cambiare. Certo. Eppure il passato non è che il presente dietro le nostre spalle. Il presente è il passato, qui, davanti a noi. Nessuno inventa nulla. Gli accadimenti umani, minuscoli o colossali che siano, obbediscono molto spesso a leggi inesorabili, che trovano la loro lenta genesi nella storia. Ciascuno è figlio non di un padre o di una generazione, bensì di mille uomini e dei secoli che l’hanno preceduto. Noi dunque siamo anche il risultato di tutto quello che ci ha preceduto; al contempo, però, noi siamo noi e gli altri sono gli altri. La nostra storia è solo la nostra storia.
Se smettiamo di voler fondere e separare contemporaneamente; se non confondiamo i fenomeni e i livelli; se impariamo a “mettere i puntini sulle i”, allora potremo porre le nostre domande e le nostre richieste alla vita e aspettarci delle risposte. E comunque vada, non sarà più una tragedia. Sarà solo e soprattutto la nostra vita, l’unica e la più alta possibile.
C’è un tempo per capire e un altro per agire, ma chi comprende e non agisce nutre la pestilenza. Tutta la nostra società deve impiegare buona parte delle sue energie a formare, a informare i suoi membri più giovani, le generazioni che la comporranno. Questo è più che mai indispensabile in questi nostri tempi. Il mito di Faust è appunto un mito. E non paga. L’eterna gioventù è l’unica vera catastrofe a cui può andare incontro l’essere umano.
E’ fondamentale, quindi, innanzitutto il lavoro che sapranno svolgere nel senso della (in)formazione coloro che sono precipuamente addetti a questo compito. Ma sono altrettanto importanti l’intervento e il livello di qualità che ognuno, nel proprio ambito, otterrà prima di tutto per se stesso e quindi per gli altri.
Ben vengano anche i blog, dunque.