giovedì 3 gennaio 2008

Blog

Il dibattito sui blog è sempre più serrato. Taluni affermano che l’inondazione di parole che ci sommerge alla fine annegherà la comunicazione, perché la capacità di ascolto diminuirà sempre più, fino ad azzerarsi; che la fonte di ogni sapere è verticale, gerarchica, mentre l’assenza di distinzione qualitativa tipica dei blog è orizzontale, confusionaria e dunque astratta e ideologica; che i messaggi dei blog sono in definitiva senza contenuto e che rappresentano unicamente la necessità, spesso solo vanitosa, di mettersi in comunicazione ad ogni costo, anche senza avere veramente qualcosa da dire; oppure che i blog sono pretesti per altri obiettivi non dichiarati, ma sottesi, come nel caso di Grillo. Tutto questo comporterà il deprezzamento e la banalizzazione dei messaggi, e la rinascita delle ideologie.
E' indubbio che l’universo dei blog contenga anche molto ciarpame, così come ospita inevitabilmente matti più o meno furiosi o disonesti di ogni genere. Ma attribuire tali evenienze all’esistenza dei blog equivale a definire la telefonia soltanto pericolosa perché ci sono individui che se ne servono per molestare o minacciare gli altri. La nascita dei blog ha migliorato grandemente la comunicazione e il sistema d’informazione. Attraverso essi vengono messe in circolazione notizie e possibilità di apprendimento in precedenza impossibili da ottenere. I blog d’informazione segnalano, per esempio, un articolo del New York Times anche a chi non sa che esiste quel giornale. Così come il fatto stesso che la maggior parte dei blog siano tematici annulla i pericoli dell’appiattimento astratto e ideologico dei messaggi, perché comporta il confronto e l’approfondimento dei temi. Cosa questa impossibile nel sistema informativo tradizionale (giornali, televisioni) perché la loro è una comunicazione senza risposta, con un solo senso di direzione. Con tutti i guasti e i pericoli che ciò comporta veramente.
Il punto nodale della questione è che tutti noi, indistintamente e di qualunque età, proveniamo dal mondo che è si è formato durante e dopo la seconda guerra mondiale: l’epoca che ha visto nascere la cultura “underground”, un tempo con problematiche, aspettative, contraddizioni, utopie completamente nuove rispetto al passato. Abbiamo sperimentato fino al midollo la via dell’eccesso, la strada che secondo William Blake conduce al Palazzo della Saggezza.
Noi la conosciamo fin troppo bene, quella via. Siamo stati eccessivi in ogni cosa: nell’odio come nell’amore, nell’entusiasmo come nell’avvilimento, nell’utopia romantica come nel cinismo, nella banalizzazione come nella drammatizzazione. Fra noi ci sono stati quelli che, in nome dell’Utopia, hanno contrattato bene il loro ruolo di vessilliferi. Oggi li vediamo sui banchi della Camera e del Senato, oppure ai tavoli dei consigli di amministrazione. Sono quelli che sapevano che alla fine si sarebbe tornati a casa. Si sono “sistemati”. Buon per loro. D’altronde, in ogni epoca, in ogni ambito, ci sono coloro che si affannano a cercare cose nuove e ci sono quelli che si preoccupano principalmente di vendere ciò che già esiste.
La via dell’eccesso. Ebbene, essa ci ha mostrato a carissimo prezzo tutto quello che non era possibile; talvolta con la conseguenza di sortire la rassegnazione, l’annichilimento, o anche l’aridità più completa. Ma, forse senza che ce ne accorgessimo, ci ha indicato, insieme con i nostri limiti, anche tutti i livelli, tutte le possibilità che realmente esistono per fare le cose.
Il nostro errore più madornale è stato, e rimane tuttora, quello di aver confuso l’individualità con l’individualismo, nel senso che molto spesso abbiano cercato di cambiare “soltanto” il mondo; che la nostra ricerca d’identità è passata attraverso “parole d’ordine” che presupponevano una visione della comunità, del collettivo, del complesso ambientale, sociale e politico troppo lontana e dissociata da noi stessi. Noi volevano cambiare tutto. “Tutto” è sinonimo di “niente”.
E’ vero, ci sono mancati i punti di riferimento, gli unici forse che avrebbero potuto aiutarci, abituarci a distinguere, a differenziare. Proveniamo storicamente da culture imperniate sui “massimi sistemi”. E noi giù, a capofitto, a “filosofare”, a disquisire, ad agitarci sempre più nei massimalismi assoluti. Giorno dopo giorno, la realtà è diventata un porto sempre più lontano. E più la nostra danza nell’infinito assoluto diventava frenetica, tanto più scoprivamo la nostra sterilità, la nostra impotenza a comprendere non solo quel che è altro da noi, ma perfino a capire noi stessi.
Se tutta la storia di commedie e molto spesso anche di tragedie di cui siamo stati al contempo spettatori e protagonisti ha un senso, è questo: noi siamo stati e siamo dilettanti dell’esistenza perché le nostre azioni, le nostre azioni si sono fondate su una presunta globalità, ma in realtà sono sempre state parcellari. Mentre è necessario imparare a distinguere, ma senza separare; a inquadrare le cose e i fenomeni nei loro contesti; a verificarli, a valutarli complessivamente.
Nessun artista, nessun poeta, nessun filosofo, nessuno scienziato è o produce separatamente dalla sua vita vera di tutti i giorni. Una vita che è un cerchio aperto. Il passato, è notorio, non si può cambiare. Certo. Eppure il passato non è che il presente dietro le nostre spalle. Il presente è il passato, qui, davanti a noi. Nessuno inventa nulla. Gli accadimenti umani, minuscoli o colossali che siano, obbediscono molto spesso a leggi inesorabili, che trovano la loro lenta genesi nella storia. Ciascuno è figlio non di un padre o di una generazione, bensì di mille uomini e dei secoli che l’hanno preceduto. Noi dunque siamo anche il risultato di tutto quello che ci ha preceduto; al contempo, però, noi siamo noi e gli altri sono gli altri. La nostra storia è solo la nostra storia.
Se smettiamo di voler fondere e separare contemporaneamente; se non confondiamo i fenomeni e i livelli; se impariamo a “mettere i puntini sulle i”, allora potremo porre le nostre domande e le nostre richieste alla vita e aspettarci delle risposte. E comunque vada, non sarà più una tragedia. Sarà solo e soprattutto la nostra vita, l’unica e la più alta possibile.
C’è un tempo per capire e un altro per agire, ma chi comprende e non agisce nutre la pestilenza. Tutta la nostra società deve impiegare buona parte delle sue energie a formare, a informare i suoi membri più giovani, le generazioni che la comporranno. Questo è più che mai indispensabile in questi nostri tempi. Il mito di Faust è appunto un mito. E non paga. L’eterna gioventù è l’unica vera catastrofe a cui può andare incontro l’essere umano.
E’ fondamentale, quindi, innanzitutto il lavoro che sapranno svolgere nel senso della (in)formazione coloro che sono precipuamente addetti a questo compito. Ma sono altrettanto importanti l’intervento e il livello di qualità che ognuno, nel proprio ambito, otterrà prima di tutto per se stesso e quindi per gli altri.
Ben vengano anche i blog, dunque.